Feeds:
Articoli
Commenti
Caravaggio, Narciso. 1597-99

Caravaggio, Narciso. 1597-99. Roma, galleria nazionale d'arte antica

Ancora oggi l’attribuzione del Narciso a Caravaggio è messa in discussione. Ma quel che è grave è che il fatto di concentrarsi sul’autografia del Merisi toglie, o meglio sposta, il piacere di vivere pienamente un quadro magistrale per fattura e profondità come il Narciso della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma.

Narciso è un mito complesso, non è solo un giovane che s’innamora di se stesso. E’ il racconto tragico nella versione di Ovidio di un bellissimo giovane che disdegna ogni persona che lo ama.
Ma c’è anche la tragedia del futuro: egli avrebbe conosciuto la vecchiaia solo se non avesse mai conosciuto se stesso. Per aver scacciato in malomodo la ninfa Eco, Nemesi punisce il giovane. Per bere Narciso si avvicina allo specchio d’acqua e lì, vedendo se stesso, innamoratosi della sua immagine, prova la tragica sensazione che  mai avrebbe colto quell’amore. Cadde nell’acqua e affogò.
Il mito in epoca medievale con le moralizzazioni dell’opera di Ovidio divenne terreno fertile per interpretazioni diverse. tra tutte spicca quella neoplatonica che accostava al significato di vanità, intrinseco nell’ammirazione di se stessi, quello del “nosce te ipsum“, conoscere se stessi.
Paolo di Tarso e Agostino affermanoche Dio è dentro di noi; nei circoli neoplatonici la conoscenza è un momento essenziale della rifrazione contemplativa, Dio è “flexus in se ipsum“, è rivolto in se stesso. Così l’uomo sapiente conosce se stesso imitando Dio, guardandosi dentro, ripiegandosi in se stesso.
Questo, e non il tema della Vanitas, potrebbe essere il motivo che spinse il committente a rappresentare un mito come quello di Narciso per un quadro da godere e esibire nel privato appartamento.

Torniamo al dilemma dell’autografia e vediamo di chiarire alcuni punti: il dipinto comparve improvvisamente nel 1913. Comparve agli occhi di Roberto Longhi che lo vide in casa di Paolo D’Ancona direttore allora dell’istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Milano, e seppe subito apprezzarne l’eccelsa fattura. Appartenne poi a Basile Khuoshinsky che, nel 1916, lo donò alla Galleria Nazionale d’Arte Antica ove tuttora si mostra.

Chi era l’autore di questa tela così bella? L’attribuzione di questo splendido dipinto oscillava tra il Caravaggio, un suo seguace (magari lo Spadarino) e Orazio gentileschi.
La svolta arriva nel 1974 quando Maurizo Marini trova il documento mancante: una licenza d’esportazione del 1645 di un quadro di tela del Carvaggio raffigurante Narciso.
Nonostante questo documento c’è chi si oppone all’attribuzione del maestro; si notano infatti alcune caratteristiche che sono comuni per Orazio Gentileschi e altre che potrebbero far pensare allo Spadarino.
certo è che l’abrasione che ha rovinato irrimediabilmente il paesaggio come i dettagli della natura circostante lo specchio d’acqua, non facilita il compito perchè ha eliminato ogni possibile confronto con altre esecuzioni.
Ancora: la conservazione di questa tela falsa l’aspetto originario; essa è stata tagliata su tutti i lati, forse pochi centimentri  ma tanto basta per nascondere per sempre l’originaria organizzazione compositiva.

E’ dunque un Caravaggio?
Dal restauro recente, l’ultimo che il dipinto ha avuto. si evincono caratteri fondamentali che, a nostro vedere, chiariscono ogni dubbio: non c’è disegno, anzi c’è una incisione che è la stessa che compare nel modo esecutivo del Merisi. Come anche appartengono al vocabolario del pittore l’uso di lasciare l’imprimitura rossiccia come contorno; la presenza di abbozzi e il cambiamento in corso d’opera; la sovrapposizione di campiture pittoriche che procede avanzando progressivamente dal fondo al primo piano.

Siamo tra il 1597 e il ’99, in un momento stilistico in cui caravaggio predilige le atmosfere magiche, sospese, introspettive. Ancora fortemente influenzato dalla pittura lombarda è già con un occhio rivolto a quello che sarà il suo stile maturo: l’opposizione drammatica tra luce ed ombra.
Un periodo idillico in cui il pittore predilige gli attimi prima o dopo l’azione, gli stati d’animo contemplativi e meditativi e una attenzione maniacale sui particolari dei costumi, sulla brillantezza delle sete.

E’ Caravaggio, non c’è più dubbio.

Solo il pittore lombardo era in grado di realizzare un quadro così poco didascalico di un mito come quello di Narciso complesso e allegorico. Non c’è panico o orrore, non c’è morale o giudizio ma solo il dolore sospeso, un dolore trattenuto ed intimo.
Qualunque sia il significato allegorico che vi traspare, nella rappresentazione Caravaggio rinunciò a tutto il corredo mitologico, mitografico e storicizzante per concentrarsi nell’istante in cui il giovane s’imbatte, senza coscienza, nella propria immagine e si rende conto a caro prezzo della mortale soglia che lo separa da essa.
E’ un amante incosciente il Narciso di Caravaggio che sbaglia, perchè cerca nel Tu l’Io.

Il Cardinale Francesco maria del Monte era un sopraffino conoscitore artistico, era un amante della musica e amava le feste. Che tipo di feste nn ci è dato sapere ma è certo che partecipavano in ogni caso anche figure nn certo bagnate da un’Aura sacra.

Il Cardinale era comunque un fervido credente.
Aveva care soprattutto due figure: Santa Caterina e La Maddalena, così care che le nominò sue uniche intecessitrici nel testamento del 1621.
Non è dunque un caso che egli possedeva numerose opere raffiguranti le sante tra cui spiccavano una copia dello splendido dipinto di Tiziano e alcune opere di Caravaggio.

Marta e Maddalena

caravaggio, Marta e Maddalena, 1598

Uno in particolare realizzato da Caravaggio desta attenzione per la valenza simbolica e l’iconografia piuttosto misteriosa, esso si basa infatti su una fonte trecentesca: E’ Marta che converte sua sorella Maddalena, raccontandole i miracoli di Gesù.
Marta è colta nella sua azione verbale. ella, soggetto principale dell’azione dovrebbe occupare una posizione preminente nell’economia del quadro mentre invece è relegata a sinistra e, soprattutto, è rappresentata in ombra.
La luce della grazia investe invece Maddalena, frontale e quasi sfrontata, ben poco attenta alle parole rivelatrici di Marta e ancora nel peccato – come distinguono gli oggetti sulla tavola e lo specchio su cui poggia, tutti simboli di Vanitas.

E’ proprio qui il gioco di Caravaggio: egli si comporta esattamante come farà di qui a poco in San Luigi dei Francesi ove Gesù portatore del verbo è relegato nella destra della tela, in ombra. La luce fisica nella Vocazione entra con lui e investe i peccatori, come la luce fisica nel dialogo tra le sorelle proviene dalla parte di Marta perchè ella parla in nome del Cristo e illumina la peccatrice per antonomasia. Quetsa luce metafisica ma fisica al tempo stesso si intravede nel riflesso della finestra nello specchio tenuto da Maddalena.
Maddalena tiene seco un piccolo fiore, esattamente come in un altro dipinto del Merisi. Dato che alcuni riconoscono nel fiore un fiore d’arancio, simbolo di matrimonio, si viene così a delineare una Maddalena che, ancora peccatrice, è già pronta al matrimonio spirituale con Cristo.

Marta è in ombra, Maddalena in piena luce. In entrambe Caravaggio ritrasse due cortigiane, per Marta si avvalse di Anna Bianchina e per Maddalena la donna più ambita d’allora: Fillide.
Entrambe senesi vennero a Roma per cercare fortuna, entrambe si trovarono nel giro degli uomini più potenti d’allora, Vincenzo Giustiniani e proprio il Cardinale Del Monte patrono del quadro in questione.

Perchè Caravaggio ritrasse in questo dipinto dall’iconografia nn convenzionale le due cortigiane? Perchè Marta – Anna è in ombra e Fillide – Maddalena è in piena luce? Qui c’è una storia umana di preferenze, di competizione, di vanitas femminile che Caravaggio conosceva e che rappresentò in questo quadro. Fillide era già comparsa ancora in un dipinto del Merisi nelle vesti di Santa Caterina commissionato ancora dal Del Monte; è lei la preferita a illustrar le preferite del Cardinale

Un’altra opera non in mostra ma eccezionale e importante per comprendere il Caravaggio.

caravaggio, Morte della Vergine - Parigi, Museo del Louvre

caravaggio, Morte della Vergine - Parigi, Museo del Louvre

La morte della Vergine è un quadro enorme, il più grande mai fatto da Caravaggio fino a quel tempo.

Il 14 Giugno 1601 Laerzio Cherubini commissionò al pittore un dipinto per l’altare della cappella che si era comprato nella chiesa di Santa Maria della Scala a Roma.

Dedicata dai carmelitatni al transito della Vergine maria in cielo, la cappella era particolarmente prestigiosa in quanto si potevano celebrare le messe per i defunti.
non sappiamo quando caravaggio terminò di dipingere l’enorme tela ma sappiamo che ci lavorò almeno fino al 1604, ben oltre la scadenza del contratto.

Appena posto sull’altare il quadro, bellissimo, fu subito tolto. Era un rifiuto grave per Caravaggio.
Perchè il quadro fu tolto dall’altare? Questa domanda ci offre la possibilità di riflettere ancora una volta sulla portata dirompente che lo stile e l’iconografia del Merisi apportarono in un clima delicato e sensibile in materia religiosa nella Roma di inizio ‘600.

Caravaggio, Morte della Vergine, particolare

Caravaggio, Morte della Vergine, particolare

Secondo i suoi biografi la tela fu rifiutata perchè ritenuta oltraggiosa, secondo Bellori “per havervi troppo imitato una donna morta gonfia“, per il Baglione ” perchè havea fatto con troppo poco decoro la Madonna gonfia , e con gambe scoperte“, secondo il Mancini invece perchè ” havea ritratto una cortigiana

Una notizia interessante è quella del 10 giugno 1604 quando un notaio del governatore viene chiamato a riconscere il cadavere di una ragazza trovato riverso nel letto del fiume all’altezza di Ripetta.
Si trattava di una giovane piccola di statura vestita con un “busticciolo di panno pavonazzo alla borgognona, un paro di maniche di tela bianche et una camiscia“. E’ per questo che fu identificata la donna con il busto slacciato sul petto nel quadro di Santa Maria della Scala?
Nello stesso anno, in settembre, Anna Bianchina cortigiana era morta. Forse era lei il soggetto che Caravaggio dipinse?
Non lo sapremo mai probabilmente ma questi indizi sono rivelatori di un certo modo di concepire l’evento sacro per Caravaggio. Secondo il suo spirito egli dipingeva sempre con il soggetto dinanzi agli occhi e aveva come mira l’attinenza al vero.
Egli dispone la scena in un umile interno, buio, al cui interno un’adunanza dolorosa di un gruppo di persone qualsiasi è attorno al cadavere di una donna qualsiasi distesa su una tavola.

Le ragioni del rifiuto sono evidenti e il contratto parla chiaro chiedendo al pittore di rappresentare “cum omni diligentia et cura” il “misterium” della “mors sine transitus Beatae Mariae Verginis“, vale a dire il miracolo di una morte sottratta alla corruzione corporale, contingente, umana e trasformata per i meriti soprannaturali nel passagio diretto alla gloria del Paradiso.

Tutto il contrario di quanto dipinge il Caravaggio. Egli così si pone al di fuori e lontano dalla teoria del Decorum e dal concetto della convenienza che tanto avevano informato gli scrittori delle cose sacre come il Paleotti, il Baronio e lo stesso Federico Borromeo.
E’ possibile tutto questo? Egli era, come abbiamo già ribadito nell’articolo sul realismo, alle posizioni pauperiste degli Oratoriani e del Cardinal Borromeo. E’ su questi accenti che dobbiamo comprendere il realismo e la profonda religiosità umile del caravaggio; forse il mesaggio di caravaggio non fu quello di interrompere questo filo rosso che informava tutte le sue opere fino a quel momento ma fu male interpretato.

Michelangelo, Pietà. Roma, San Pietro - particolare

Michelangelo, Pietà. Roma, San Pietro - particolare

Sicuramente dobbiamo scartare l’ipotesi di un approccio sacrilego da parte del pittore preferendo quello allegorico. la figura “gonfia e con le gambe scoperte” può riferirsi al concetto di Gonfia come piena di grazia e i piedi nudi come simbolo di fede e humilitas. Simbolico è, d’altra parte , il drappo rosso allusivo a una resurrezione. La madre di Cristo è rappresentata giovane come giovane fu scolpita da Michelangelo nella pietà. Ella è eterna in quanto morendo rinasce e si perpetua nella Madre Chiesa.

Caravaggio unifica l’icongrafia della Vergine giovane, come sempre era stata dipinta, con un realismo toccante e drammatico. Concentra così il simbolo nel reale. Questo fu forse il motivo di questo rifiuto: l’essersi spinto al di là della tradizione.

Il dipinto suscitò un dibattito e un interesse notevole da parte degli artisti tanto che Rubens il fiammingo lo acquistò portandolo a mantova presso la corte del duca Vincenzo I Gonzaga e da qui raggiunse il Louvre, dove ora è esposto.

Dove viveva Caravaggio

Palazzo Firenze, Roma

Palazzo di Firenze, Roma

Michelangelo Merisi dopo aver terminato il suo apprendistato da Simone Peterzano a Milano si stabilisce a Roma nel 1592 dove vivrà fino al 1606, ce lo dicono i suoi biografi, ce lo raccontano i suoi dipinti che ancora decorano le cappelle delle chiese romane.

Sappiamo che Caravaggio viveva nel mondo della Roma di Clemente VIII Aldobrandini; un mondo fatto di vicoli stretti e umidi, di stamberghe ed osterie, di popolo minuto, di emarginati e prostitute, come di raffinati palazzi signorili.
A fronte della mancanza assoluta di notizie circa la sua residenza romana nei primi anni possiamo individuare, la zona prescelta dal Merisi e, addirittura, la stessa via; almeno dopo una certa data.

Caravaggio fu conosciuto ed introdotto alla corte del Cardinal Francesco Maria del Monte “attraverso  i buoni offici di certo Mastro Valentino a San Luigi dei Francesi, rivenditore di quadri” (Ma il nome potrebbe benissimo camuffare un più certo Jaques Landi che lavorava come speziale e vendeva quadri). Da ciò se ne ricava che il pittore viveva vicino a San Luigi, nel Campo Marzio dove d’altronde era la bottega di Giuseppe Cesari detto il Cavalier D’Arpino, pittore presso il quale lavorava.

Per individuare dove esattamente viveva il pittore bisogna immedesimarsi in un investigatore e prendere tutte le documentazioni che abbiamo.

Vicolo dei Santi Cecilia e Biagio

Vicolo dei Santi Cecilia e Biagio, oggi vicolo del Divino Amore. sulla sinistra il palazzo dove visse caravaggio, sulla destra il lato di palazzo Firenze

dato il personaggio ci rendiamo conto che la maggior parte di queste riguardano fatti e fattacci di cronaca: l’11 Settembre del 1603 Caravaggio fu arrestato (vedremo in un altro articolo il perchè) e rilasciato due settimane dopo. Egli prende poi in affitto una casa nel Vicolo dei Santi Cecilia e Biagio, a Campo Marzio, non lontano dalla bottega del suddetto Cavalier D’Arpino “prope Palatium legati Florentiae” cioè accanto alla residenza dell’ambasciatore del Granduca di Toscana Francesco Maria del monte che risiedeva nel Palazzo di Firenze e Palazzo Madama, tra la via di Pallacorda e proprio il vicolo sopracitato, oggi vicolo del Divino Amore.

Il caso ha voluto che il luogo dove Caravaggio si affermò come “egregius in urbe pictor”, la residenza del Cardinal del Monte, vive tuttora compreso tra i due vicoli in cui si consumarono fatti estremi della sua vita. E’ in questo triangolo di vicoli che l’esperienza esistenziale del Merisi si concentra: il Palazzo, la sua casa e l’osteria dove uccise Ranuccio Tomassoni.

è qui che ancora oggi si può vivere passeggiando la sua ascesa e la sua rovina.

La Medusa di caravaggio - Firenze, Uffizi

Chiunque abbia avuto la fortuna di aggirarsi per i corridoi e le stanze degli Uffizi a Firenze avrà provato un’inquietante esperienza nello star di fronte la Medusa di Caravaggio. Avrà avuto la possibilità di sperimentare l’orrore che questa maschera produce e, soprattutto, lo straniamento che suscita quando, muovendosi di fronte ad essa, si capisce che è un oggetto a tre dimensioni.

Ancora oggi quindi, come allora, la testa di Medusa provoca nello spettatore una partecipazione estrema del suo estremo urlo agghiacciante. Proviamo a riflettere su cosa poggia questo sconcertante effetto.

Lo sguardo di Medusa avva un potere terrificante: mutava gli uomini in pietra.
Medusa viene sconfitta con un atto di rara astuzia: Perseo le rivolse lo scudo lucidato a specchio contro  e contro di essa scatenò il suo stesso potere. Medusa venne così pietrificata attraverso il suo stesso sguardo e poi decapitata, infine ostentando la sua testa Perseo sancì la morte della Gorgone.

Scudo con effigie di Medusa, Londra, V&A Museum

Per ovvie ragioni l’iconografia di medusa era il soggetto principe nella decorazione degli scudi nel ‘500 e così il Cardinal Del Monte, ambasciatore del Granduca di Toscana a Roma commissionò la realizzazione di Medusa su di uno scudo a Michelangelo Merisi, per poi donarla proprio al Granduca Ferdinando I de’ Medici.

La Medusa di Caravaggio è un’immagine paradossale e pone l’osservatore in un processo cognitivo che non può arrivare a termine e che lo spinge ad interrogarsi su questi ambigui paradossi visivi dell’immagine.
Paradossale è il trattamento della superficie: lo scudo è per sua natura convesso ma Caravaggio lo tratta, con sommo illusionismo, come se fosse una superficie concava su cui la testa del mostro poggia (ne è riprova l’ombra portata sul piano).

Cellini, Perseo

Paradossale è l’immagine della testa mozzata, e qui è il caso di fare qualche esempio. Sempre a Firenze nella loggia dei lanzi svetta il Perseo di Cellini che ostenta la testa mozzata di Medusa. Qui la mimica facciale parla chiaro: nella sua immobilità è stabilito un passaggio esistenziale da ciò che Medusa era a ciò che è. Ella si è estinta dalla vita; l’immobilità del suo volto, la bocca chiusa e le palpebre abbassate ci parlano solo di una morte avvenuta, il trapasso si è compiuto e compiuto è il destino di Medusa.

Caravaggio opera in maniera del tutto diversa: Medusa, o meglio ciò che resta, è piena di irrefrenabile vitalità.; la bocca è urlante e colmi ancora di sforzo sono i suoi muscoli gelati in un urlo muto; gli occhi sono allucinati e le sopracciglia aggrottate, Il groviglio di serpi si muove come impazzito e dal suo collo grondano fiotti di sangue.

Dettaglio dello scudo

E sottolinea questo paradosso trattando, come solo un grande artista poteva fare, la vitalità nei dettagli: Le labbra sono turgide; sui denti balena un riflesso che è quello della saliva; gli occhi sono umidi.

Per tutto queste caratteristiche il dipinto del Merisi non è una rappresentazione della storia di Medusa, difatti nn c’è narrazione, non v’è un prima e un dopo. la storia si compie nell’intervento stesso dell’osservatore che trova nella illusione stilistica una condensazione di ciò che Medusa era in vita e il suo trapasso per ciò che sarà.
Caravaggio realizza un paradosso perchè l’esperienza di Medusa è manifestata al tempo stesso come un momento passato, quello della decapitazione con il suo l’urlo straziante, e la sua conseguenza: la morte.

ma l’esperienza della morte è caratterizzata da uno sguardo di estrema vivezza e reattività eppure fisso nel vuoto. I paradossi e del trattamento della superficie e della storia di Medusa fanno oscillare la realtà della raffigurazione tra un essere nel non essere e un non essere nell’essere.

Gaspare Murtola in un elogio in versi scritto nel 1603 proprio in onore della Medusa di caravaggio esorta a evitare di guardare questo quadro perchè esso, riempiendo di stupore davanti a tanta arte trasformerebbe alla fine l’osservatore in pietra. Lo stesso Giovanbattista Marino, fine ammiratore del Merisi riflette sul dipinto concependolo come polo costantemente oscillante tra il potere della figura rappresentata e il contropotere della invenzione figurativa e interpretando la forza artistica plasmatrice come atto trasigurante anche e soprattutto nei riguardi dell’osservatore.
La terzina che Marino scrive sul potere dell’arte è perfettamente calzante anche per la Medusa del Caravaggio :
È del poeta il fin la meraviglia: chi non sa far stupir , vada alla striglia.”

E’ quella di Medusa una lotta tra la vita e la morte, uno scontro tra creazione della forma e il suo dissolvimento, è genesi ed estinzione.

Naturalismo e realismo sono i termini più usati per descrivere l’opera e lo stile di Michelangelo Merisi da Caravaggio.

dettaglio del San Giovanni Battista

San Giovanni Battista, dettaglio

termini entrambi precisi e calzanti: l’esperienza che ognuno di noi può avere guardando un dipinto di Caravaggio è quella di una attonita ammirazione per l’abilità tecnica del pittore nel rappresentare ed imitare pedissequamente la natura, intrinseca, delle cose e degli umani.

Questa rara abilità mimetica è oltretutto sostenuta da un’altrettanta rara capacità di immergersi negli stati d’animo dei soggetti;  si rimane catturati, colpiti e scossi dall’umanità che muove i personaggi rappresentati da Caravaggio. Personaggi che sono lungi dall’essere semplicemente dipinti. Essi vivono confinati nel bordo della tela ma travalicano tale limite fisico proprio grazie alla loro fattura; attraverso la loro naturale verità sanno come toccare le corde più sensibili dello spettatore.

La capacità di fissare il momento sospeso è per noi uomini del nostro tempo un fatto naturale. Noi che siamo tutti capaci di immortalare istanti premendo semplicemente il pulsante delle macchine fotografiche.

Ma prima che l’obiettiva fotografia togliesse ogni poesia all’immagine e all’immaginazione questa capacità era solo nelle mani dei pittori, di quelli più dotati.

Incredulità di San Tommaso, Dettaglio

Dettaglio dall'Incredulità di San Tommaso

Queste caratteristiche durante i secoli nn sono state intaccate dal mutare del gusto lasciando, giustamente, il pittore al di fuori di ogni catalogazione ed hanno, anzi, contribuito a definire un intero filone d’artisti che al maestro lombardo guardavano e attingevano. Così per secoli e tuttora quadri neri come la pece scaldati da flebili raggi di luce che fanno emergere volti e corpi dalle fattezze popolari si definiscono caravaggisti.

Definizione che, invece, durante i secoli ha conosciuto amare critiche che hanno raggiunto non poche volte i caratteri ben definiti dell’insulto; Caravaggio e per analogia i caravaggisti erano coloro che dipingono “del tutto senza attione“, ovvero i critici non riconoscevano nessuna valenza nella perizia tecnica di dipingere al naturale perchè non v’era arte in essa, ma solo uno scimmiottamento, inutile, della natura.

A chi non è digiuno di teorie artistiche queste accuse puzzano di accademia, correttamente. Passata l’ondata del caravaggismo a Roma come in altri centri artistici l’arte figurativa tornava sotto il segno apollineo del classicismo.

La folgorante ascesa dello stile denotato dalla drammatica opposizione di scuro e luce lasciava il posto, nel giro di pochi decenni, ad un classicismo che seppe comunque ruminare e far sua l’innovazione naturalistica sancita da Caravaggio e dai caravaggisti.

Ma era davvero nuovo lo stile del lombardo? e se tutto sommato lo era come potè nascere e in quale clima culturale potè trovare spazio?

Le innovazioni infatti hanno sempre bisogno per nascere di un clima culturale di rottura che necessita, appunto, di andare oltre i limiti costituiti; ma hanno altresì bisogno di una rete che le promuova, pena il confino.

Per capire il naturalismo di Caravaggio bisogna tener conto dell’ambiente e della sensibilità intorno alle immagini del tempo.

E il tempo era quello duro, durissimo, del conflitto tra il cattolicesimo e il protestantesimo.

Duro durissimo anche per gli artisti.

Asino Icoloclasta

intorno alle immagini e alle manifestazioni artistiche in generale si consumò un vero e proprio scontro: i protestanti infatti criticavano aspramente la venerazione dei cattolici di fronte alle immagini fino al punto di definirla idolatria. Come nella loro dottrina della predestinazione non trovava più spazio la mediazione delle figure ecclesiastiche ma solo il diretto contatto col divino manifestato nelle scritture così le immagini erano solo distrazioni. La guerra di religione che si perpetuò nei paesi nordici vide addirittura delle vere e proprie spedizioni punitive nelle chiese cattoliche con la distruzione in pubblico di libri, dipinti e sculture.

Di contro i cattolici, tenendo in considerazione quanto importante fu la divulgazione e l’affermazione del cristianesimo attraverso le immagini nell’età paleocristiana, non potevano rinunciare alla manifestazione artistica. Ma era comunque necessario un ripensamento sulle tendenze manieristiche che decoravano chiese e luoghi sacri. Queste immagini per via del fine intellettualismo che le denotava erano ormai del tutto scollate dalla vera religiosità, erano atti estetici, art pour l’art.

Il Concilio di trento, lungo ed estenuante, tracciò le linee del riformismo e tra queste un largo capitolo fu dedicato proprio all’arte e alle immagini. In alcuni trattati che videro la luce in questo periodo si criticavano anche artisti considerati divini, alcuni di questi trattatisti si spinsero oltre attuando una vera e propria inquisizione.

una inquisizione che portò alcune figure illustri della chiesa a volere addirittura la cancellazione di un capolavoro assoluto come il Giudizio Universale di Michelangelo. Fortunatamente tale catastrofe non avvenne ma il fatto che subito dopo la morte del Maestro si operò subito al “vestimento” delle immagini nude del Giudizio è un chiaro sintomo dell’attenzione morbosa che l’arte doveva subire.

Riassumendo le istanze a cui i pittori e committenti dovevano attenersi secondo il Concilio erano tre:

  1. chiarezza , semplicità e intelligibiltà;
  2. interpretazione realistica;
  3. stimolo emozionale

la prima si spiega da sola, la seconda favorì un controllo sulle raffigurazioni artistiche perchè nn si discostassero dalle sacre scritture e nelle ambientazioni e nelle suppellettili quanto e soprattutto nella trattazione dei soggetti che dovevano assolutamente essere privi di ogni falsificazione circa il loro stato sociale. Ergo niente più drappeggi di tessuti preziosi, niente più idealismi intorno le fattezze dei soggetti.

Questo realismo quindi si poneva come l’abbecedario della chiesa nuova e e si riallacciava al rinascimentale concetto di verosimiglianza, vale a dire età, sesso, tipo, espressione. gesto e abito adattati al carattere della figura rappresentata.
Le immagini così esattamente trattate hanno possono così di alimentare il sentimento religioso dei fedeli, e questo è il terzo punto.

Dal 1580 circa queste direttive cominciarono ad essere applicate.

Caravaggio si forma a Milano e si afferma a Roma.

E’ in questi due centri che bisogna cercare.

Come al tempo di Ambrogio, Milano era l’avanguardia della riformulazione del credo cristiano; le idee per il rinnovamento religioso così vicine al pauperismo perduto dei primi cristiani avevano nel circolo dei Borromeo i loro rappresentanti più eccelsi. Carlo, che di lì a poco diverrà San Carlo Borromeo e Federico Borromeo che tanto fece e tanto scrisse per rinnovare la chiesa.

L’arte per Carlo e per Federico era di fondamentale importanza, al pari della celebrazione della messa, al pari dei sacramenti, al pari dell’eucarestia. Anzi erano proprio le immagini che dovevano spingere il credente alla preghiera, non dovevano persuadere – questo sarà poi un compito assegnato qualche decennio dopo -ma dovevano stimolare.

Il Borromeo espresse la sua personale ideologia nei confronti delle immagini redigendo il testo “De Pictura Sacra” che si poneva come un vero e proprio trattato estetico e da cui se ne potevano trarre delle linee guida nel trattamento delle immagini. Queste linee si possono riassumere nei termini Decoro e Convenienza che vengono ribaditi più volte nel trattato.

A Milano Caravaggio è alla bottega di Simone Peterzano e la sua opera è stata messa spesso in relazione con le direttive borromaiche in particolare negli anni ’80 quando il pittore trapassa a modi devozionali di particolare austerità e di arcaizzante semplificazione compositiva.

Il Peterzano, da oculato imprenditore, si era posto in linea con le direttive soprattutto per ottenere commissioni importanti e remunerative. D’altra parte lo stesso Borromeo poteva contare sul Peterzano per mantenere il realismo lombardo con la tarda maniera rinascimentale coiugata al colorismo veneto.

Anche Antonio Campi, pittore che già il Longhi mise in relazione circa la formazione del Merisi, non era avulso dall’ambiente riformatore.

Insomma Caravaggio ancora giovanissimo dovette formarsi sulla concezione filosofica e religiosa dell’arte che doveva insegnare come su quella stilistica di una pittura sempre “fedele al vero” che avrebbe professato e che cambierà dall’interno il panorama artistico.

A Roma la riformulazione delle immagini aveva caratterizzato le maggiori commissioni pubbliche al tempo di Sisto V e Clemente VIII, ne nacque un tipo di arte denominata controriformistica, che videro operare in incarichi ufficiali artisti come Cesare Nebbia, Paris Nogari, Giovan Battista Ricci e Andrea Lilio


A Roma Caravaggio arriva nell’estate del 1592 con questa eredità. Pur non avendo sufficente documentazione per sapere come il pittore dovette passare i primi anni della sua vita romana una cosa è certa, ed è quella che ci interessa: Caravaggio al suo arrivo a Roma utilizzò i canali principali per inserirsi nel mercato artistico, primi tra tutti le relazioni che aveva con le importanti famiglie degli Sforza e dei Colonna.

I Colonna erano devoti agli Oratoriani di Filippo Neri e questo era intimamente legato con Federico Borromeo.

facile a questo punto mettere in relazione il cenacolo Oratoriani-Borromeo come quello intorno al quale dovette gravitare il Merisi.

Lo stesso Giuseppe Cesari il Cavalier D’Arpino, il più famoso pittore del periodo a Roma alla cui bottega Caravaggio lavorava era protetto sia dai Crescenzi sia dai Colonna. Da Qui il Pittore entrò in contatto con il Cardinal Francesco Maria del Monte, un autentico protettore delle arti del tempo e anche lui legato alle fazioni riformiste.

Insomma, le direttive e la necessità di rinnovare il linguaggio figurativo secondo quei dettami di attinenza al vero, di principio di verosimiglianza e rispetto per le sacre scritture assimilate da caravaggio a Milano sono le stesse che informavano e di cui necessitavano gli esponenti del ramo riformatore romano.

Lo stile popolare di caravaggio, la sua intima attinenza al fatto sacro è così il frutto di una grammatica piena di ideologia.

E’ l’ideologia del recupero della vera chiesa, del vero messaggio cristiano, quello delle origini, di una chiesa vicina agli umili e a i derelitti; un’ideologia dell’arte fatta di immagini semplici, chiare, popolari, didascaliche e facilmente memorizzabili.

Dettaglio della Madonna dei Pellegrini

Dettaglio Madonna dei Pellegrini

Il naturalismo di Caravaggio suscita emozione e sconvolge al tempo stesso ora come allora. Egli seppe dare forma alla vera parola cristiana, fatta di passione e dolore, umile e chiara. E’ in questa attualizzazione del fatto sacro che il naturalismo di Caravaggio si lascia cogliere per la profonda identificazione dell’arte e del concetto fusi, memorabilemente, nell’immagine.

Ma allora l’arte di Caravaggio fu ancora più sconvolgente perchè il consumo delle immagini era vivo e vero, intorno ad esse e in esse si concentravano fazioni potenti rivoluzionarie o realiste. Questo realismo fu la ragione della sua affermazione e fu la causa delle innumerevoli critiche mosse da chi vedeva nei riformatori un pericoloso partito nemico dello status quo.













Caravaggio muore a Porto Ercole il 18 luglio del 1618 stroncato da una febbre maligna, così almeno possiamo leggere nelle biografie dell’artista.
Questa notizia viene riportata anche da Giovanni Baglione, Giulio Mancini e Pietro Bellori – suoi fondamentali biografi – e da dispacci ufficiali che annunciavano la scomparsa del celebre pittore, ma il fatto che ancora oggi il corpo di Caravaggio non sia stato ritrovato lascia giustamente spazio al dubbio.

il luogo dove sarebbero stati individuati i resti di caravaggio

In attesa che venga finalmente resa pubblica la notizia del ritrovamento del corpo seppellito, a quanto sembra, nel cimitero di Porto Ercole, riassumo di seguito le testimonianze e le discrepanze che rendono gli ultimi giorni di Caravaggio un mistero tuttora insoluto.
Già nel 1996 un saggio pubblicato negli atti del convegno di studi su Caracaggio, la vita e le opere attraverso i documenti, il professor Pacelli avanzava un’ipotesi interessante: che quella di Porto Ercole fu, in verità, una farsa vera e propria.

Andiamo con ordine: Baglione, Bellori e Mancini, biografi di Caravaggio, descrivono gli ultimi drammatici giorni con parole toccanti, rendendo un quadro di una persona disperata, senza più niente, completamente allo sbando e solo:
Come disperato andava per quella spiaggia sotto la sferza del Sol leone a veder, se poteva in mare ravvisare il vascello, che le sue robe portava (…)”, “(…)arrivato in un luogo della spiaggia misesi in letto con febbre maligna; e senza aiuto humano tra pochi giorni morì malamente, come appunto havea vivuto“.

Un dispaccio ufficiale del 31 Luglio del 1610 annuncia l’avvenuta morte: “E’ morto Michiel Angelo da Caravaggio pittore celebre a Port’Hercole mentre da Napoli veniva a Roma per la Gratia da Sua Santità fattali del bando capitale che haveva“.

caravaggio, Sette Opere di misericordia

Prima di imbarcarsi in quello che fu il suo ultimo viaggio Caravaggio era dunque a Napoli dove viveva protetto dalla famiglia che più di tutti si era spesa per la sua causa, i Colonna. Napoli, da cui la fitta rete di relazioni che il Merisi aveva saputo tessere cercava di far firmare la richiesta di grazia per la condanna a morte che pendeva sul suo capo dal 1606.

Ma la protezione dei Colonna si era rivelata fallace pochi mesi prima della sua partenza, esattamente nell’ottobre del 1609, quando il Merisi fu fermato all’osteria del Cerriglio nel pieno centro della Napoli portuale e lì aggredito e ferocemente malmenato fino al punto di far circolare la notizia di una sua uccisione.

Perché fu aggredito Caravaggio, e da chi?
Per cercare di capire chi volesse la sua morte o almeno volesse fosse eseguita una punizione esemplare bisognerà tornare a quello che, probabilmente, fu il delitto peggiore perpetuato da Caravaggio, persino peggiore dell’omicidio di Ranuccio Tomassoni.

ritratto di Alof de Wignacourt

Dobbiamo spingerci ancora indietro allora, fino alla primavera del 1608 quando il Merisi cominciò a Malta il ritratto del Gran Maestro dell’Ordine Alof de Wignacourt. Questo dipinto, ora al Louvre, fu il gran viatico per la concessione del titolo di Cavaliere dell’ordine di San Giovanni di Gerusalemme occorso il 14 luglio del 1608.

Forte Sant'Angelo, Malta

Con questo titolo il pittore si garantiva così l’immunità e poteva finanche avanzare la richiesta di grazia al Papa per ritornare a Roma. Ma nel giro di pochi mesi tutto cambiò. il delitto stavolta fu un affronto nei confronti di un importante personaggio dell’ordine di Malta, affronto di cui ancora nn abbiamo nessuna fonte documentaria e che si fonda su deboli sentito dire, ma di cui conosciamo la conseguenza: l’imprigionamento di Caravaggio nella “guva” del forte di Sant’Angelo a Malta, la fuga in Sicilia, il riparo a napoli e l’espulsione dall’ordine con l’umiliante appellativo di “putridum et foetidum”.

Un affronto così grave che mai fu cancellato.

Se veramente fu questo il motivo dell’aggressione, diviene ovvia l’identificazione degli aggressori; Napoli era un porto usuale per le galere dell’ordine di Gerusalemme, fu da una di queste navi che scesero gli inviati insigniti di un ordine ben preciso: punire il reo.

Caravaggio, dopo l’aggressione del Cerriglio, dovette ritenere la sua vita profondamente in pericolo se non poteva più sentirsi protetto in un territorio familiare come quello napoletano. Da qui la decisione di tornare a Roma nonostante la notizia della grazia pontificia fosse ancora solo una voce.

E torniamo alle discrepanze dei suoi biografi: mentre il dispaccio ufficiale parla chiaramente di Porto Ercole, fugando il dubbio che lo voleva precedentemente morto a Procida, Baglione non fa menzione del luogo mentre il Mancini avvalora si l’ipotesi del porto toscano ma corregendo se stesso che in prima istanza aveva parlato di Civitavecchia.

Il porto Laziale è oggi come allora il porto naturale per chi vuole o voleva raggiungere Roma, ma Caravaggio sapeva benissimo che li sarebbe stato in pericolo. Porto Ecole era in territorio spagnolo e lì sarebbe stato al sicuro. E invece lì fu arrestato perchè confuso con un altro ricercato, secondo i biografi, e solo dopo aver sborsato una congrua somma di denari sarebbe tornato in libertà pur perdendo tutto, compresa la salute mentale.

E’ poi possibile immaginare il più famoso pittore del momento, ambito da vicerè e potenti signori, un pittore che nel suo vagabondaggio riuscì addirittura ad essere insignito del titolo di “fratello” dell’ordine di gerusalemme nonostante fosse proibito agli omicidi, solo senza l’aiuto di nessuno a vagabondare per le spiagge acquitrinose e malsane del Tirreno? e se così fosse stato perchè?

Prende così definitivamente corpo l’ipotesi della vendetta nei confronti del pittore. Il che rende anche plausibile il mancato ritrovamento del corpo (finora) e il silenzio occorso anche nei confronti dei familari. Difatti chi avesse visto il corpo avrebbe potuto escludere per certo la febbre malarica come causa del decesso.

Caravaggio forse nn arrivò mai a Porto Ercole nè a Civitavecchia, non battè mai le spiagge del litorale tirrenico sotto il Sol Leone nè si ammalò. Il Merisi fu forse ucciso a Napoli e fatto sparire, o forse si imbarcò con le sue cose per avvicinarsi a Roma, ma mai approdò.

il mancato funerale, l’assenza del luogo di sepoltura, senza che nessuno dei suoi protettori, che avevano fatto a gara per impossessarsi dei suoi dipinti, alzasse la voce per onorare con degna sepoltura l'”egregius in urbe pictor” rende il quadro della scomparsa cosparso di un omertoso silenzio assordante da congiura.

I beneficiari di questo che si configura come un omicidio di stato furono ben ripagati proprio dal bottino che la feluca dell’ultimo viaggio portava e che era intanto tornata a napoli: il vicerè di Napoli con un bel San Giovanni, Scipione con l’altro San Giovanni e la marchesa Costanza Sforza Colonna con gli altri dipinti.

E pensare che caravaggio aveva previsto la sua tragica fine dipingendo se stesso nelle fattezze orrende di Golia nel tentativo, forse, di esorcizzare la morte. Un tentativo vano.

Davide e Golia, CaravaggioQuest’opera è la più drammatica rappresentazione del soggetto biblico e la più drammatica e intima opera di Caravaggio.

La critica in origine aveva datato l’opera all’ultimo anno romano del pittore, quindi al 1605-06 ma le evidenti dissonanze stilistiche lo hanno giustamente posticipato all’ultimo anno di vita del Merisi.

Intima e drammatica perchè profondamente legata alla fine tragica che di lì a poco spezzerà la vita di Michelangelo Merisi.

Da uno scuro che nero non è Davide compare illuminato da una frontale. Il drappeggio in alto a sinistra ci guida nella comprensione del dove e quando: La tenda è quella di Saul e il momento, ovviamente è quello del trionfo manifesto. Fiero e ancora con la spada in mano Davide osserva e offre allo spettatore l’orrida maschera sofferente dello sconfitto Golia subito dopo aver reciso la sua testa.

Fiero l’eroe per aver sconfitto il malvagio.

Già le fonti antiche avevano riconosciuto nel volto tumefatto di Golia i tratti di Caravaggio ed è questo che rende il dipinto così drammatico e autobiografico.

“in figura Christi David, sicut Goliath in figura diaboli”, così scriveva inatti Sant’Agostino che concludeva “Humilitas occidit superbiam”.

Proprio questa massima di Agostino viene letta nella iscrizione ancora leggibile sulla spada di Davide H – AS O S come è stato suggerito da maurizio Marini.

Alla luce di questa lettura l’allegoria diventa così una tragica evidenza: Caravaggio si effigiò non nella figura divina di Davide ma in quella del dannato Golia, confessione quindi del proprio stato di peccatore, di reo, di assassino che meritava solo di essere punito.

Il quadro, se è vero che era stato dipinto per essere spedito al cardinale Scipione Borghese, è quindi un atto di “humilitas”, l’ultimo tentativo del pittore di mettere fine al suo stato di fuggiasco così come aveva vissuto negli ultimi quattro anni di vita.